Leggendo un interessante articolo di Gianluca Lo Coco dal titolo “L’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici: per una ricerca basata sulla pratica clinica” ho continuato a riflettere su una tematica attuale e sicuramente interessante per tutte e tutti le psicologhe e gli psicologi che si trovano, terminato il percorso universitario, a scegliere che tipo di specializzazione intraprendere. Gli interrogativi sul piano lavorativo e applicativo nei contesti odierni, che non siano quelli dello studio del terapeuta impegnato nella sua professione privata, sono sicuramente uno spartiacque che spesso fa prediligere trattamenti per così dire maggiormente “evidence-based” a percorsi di formazione che, a parità di risultati e robustezza dell’intervento, rimangono meno intuitivamente comprensibili rispetto ai fattori di guarigione e cambiamento. Fattori intrinsecamente legati ad una dimensione che, parafrasando i coniugi Baranger, potremmo definire collegata alla complessità del campo bipersonale nel quale la persona del terapeuta e la relazione si fondono sul piano della teoria della tecnica.

Questo articolo, come altre interessanti ricerche sull’efficacia e l’applicabilità della terapia psicodinamica che analizzano il rapporto tra efficacia, contesti, ricerca e metodo di intervento (Leichsenring D et al., 2006; Milrod B., 2009; Cromer TD, 2009; Shedler J., 2009; Hilsenroth MJ, 2010; Watzke B, 2010) ci impone una riflessione circa la questione se il problema sia di efficacia o di complessità, o forse ancor meglio potremmo parlare di problema di comunicare quella complessità ai futuri addetti ai lavori. Rispetto a questo una riflessione interessante arriva da Nancy McWilliams (2017) che si è interrogata recentemente su quale tipo di ricerca sarebbe realmente utile ai terapeuti che svolgono la professione, evidenziando come la tradizionale domanda di “Cosa funziona per chi” dovrebbe trasformarsi in “Chi funziona e con chi si riesce a lavorare meglio?” con un’attenzione specifica primariamente allo studio delle caratteristiche del terapeuta e all’interazione tra personalità del clinico e mondo relazionale del paziente. La Mc Williams ci riporta dunque a una questione al quanto complessa e importante: come si standardizza un processo nel quale lo strumento non è più la tecnica ma la personalità del terapeuta e la relazione con il paziente? Come colmare questa distanza tra la pratica clinica e la ricerca nel campo dell’analisi dinamica (tema ricorrente e di non facile comprensione per i futuri addetti ai lavori che sentono il bisogno di vedere un rapporto gerarchico con a capo la certezza dei dati e delle tecniche come mappa d’orientamento per la loro pratica clinica)?

La risposta a questa domanda, ammesso che ce ne sia una, non credo che sia importante per ora quanto la domanda stessa con cui molti docenti e supervisori si trovano a convivere nel confronto con la professione in fieri. Ho come l’impressione che la risposta al problema sia articolata non tanto solo per la complessità della domanda quanto per il fatto che il bisogno di un rapporto per così dire Top-down tra ricerca e pratica clinica si possa collegare alla personalità stessa del clinico. Potremmo immaginare che la vera domanda possa invece essere: perché si sente il bisogno di far guidare il proprio operato e poterlo dimostrare attraverso una corrispondenza netta con dei dati, piuttosto che accettare la fluida e interessante correlazione mai perfetta che c’è tra ricerca e intervento dove lo scarto è chiaramente l’individualità/strumento del terapeuta stesso? È forse questo uno scarto ascientifico? Serve arrivare ad una corrispondenza e dimostrabilità dove le cose possano combaciare?

Sicuramente non si può negare che tutto quello che è standardizzabile, verificabile e comunicabile diventa potente e preziosissimo strumento per la comunità scientifica e la pratica clinica. Ma la domanda è se questo sia vero anche quando la direzione è quella di rinunciare ad un pensiero prismatico e complesso a favore di tecniche più intuibili e immediate. Come riporta Lo Coco: “Marvin Goldfried (2018) si pone la questione di come favorire il transito della psicoterapia, dopo più di cento anni dalla sua nascita, verso uno statuto di professione scientifica matura. Secondo l’autore, manca ancora un consenso generale su quali siano i suoi principi di fondo che ne caratterizzano teoria e prassi operativa.”  Questa saggia riflessione mi ha fatto però pensare ad un passaggio di una lettera che la Mc Williams ha scritto in questi tempi di pandemia nella quale parlando di questioni lontane dall’argomento di questa riflessione scrive: “L’esperienza clinica mi ha insegnato che, una tra le più profonde fantasie del genere umano, è la convinzione che da qualche parte ci sia un onnipotente, onnisciente Altro che può aggiustare le cose. La prima volta che divenni consapevole del potere di questa fantasia fu quando mia figlia di due anni, fece una vera e propria scenata poiché io non ero in grado di far smettere di piovere.” Mi ha colpito questa riflessione e mi chiedo quanto sia collegata anche al problema che si riscontra nel rapporto tra ricerca e clinica e al problema che si riscontra nel vincere un certo tipo di diffidenza degli studenti nell’abbracciare una disciplina, quella della psicoterapia psicodinamica, che per sua natura, utilizzando la persona del terapeuta come strumento d’elezione del trattamento, impone l’abbracciare considerazioni più complesse e una pratica clinica che, sebbene scientifica e teoricamente forte, mantiene delle preziose aree di liquidità.

Gli outcames di molte sperimentazioni e ricerche in ambito istituzionale su terapie a breve e lungo termine hanno dimostrato la sostanziale efficacia del trattamento psicodinamico anche quindi in contesti diversi da quelli di elezione, eppure ancora ad oggi si nota una sorta di diffidenza ad applicare ed utilizzare questo tipo di terapia a fronte di altri approcci validissimi che sembrano godere di un’interfaccia maggiormente trasformabile in termini statistici. Queste riflessioni non ci devono convincere che sia inutile interrogarci sulla teoria della tecnica e un tentativo di una uniformazione che renda più chiaro il quadro, ma vogliono rimanere come domande aperte e importanti su cui in ambito clinico e di formazione sembra impossibile, oggi come oggi, non soffermarsi.

Per concludere trovo importante riportare le stesse parole dell’autore dal quale articolo è originata questa modesta riflessione che riprendendo i contributi di Goldfried (2018) afferma: “È nata quindi l’esigenza di sperimentare delle pratiche di disseminazione della conoscenza che potessero seguire due vie, piuttosto che una, dalla ricerca alla pratica e dalla pratica alla ricerca.

Una practice-based research che si ponga come elemento complementare alla evidence-based research (…) Tale integrazione è soprattutto necessaria nell’ambito delle terapie psicodinamiche o psicoanalitiche, che hanno maggiormente pagato il prezzo di uno storico scollamento concettuale tra pratica e ricerca”.

 

Bibliografia

Cromer TD, Hilsenroth MJ (2010), Patient personality and outcome in short-term psychoanalitic psychotherapy. Journal of Nervous Mental Disorders, 2010, 198(1):59-66.

Goldman, R. E., Hilsenroth, m. J., Gold, J. R., Owen, J. J., & Levy, S. R. (2018). Psychotherapy integration and alliance: an examination across treatment outcomes. Journal of Psychotherapy Integration, 28, 14-30.

Goldfried, m. R. (2018). Obtaining Consensus in Psychotherapy: What Holds Us Back?. American Psychologist, 74, 484-496.

Leichsenring D et al (2006), Cognitive-Behavioral Therapy and Psychoanalitic Psychotherapy: techniques, efficacy and indications. American Journal of Psychotherapy, 2006, 60(3):233-237. McWilliams N. (2004). Psychodynamic Psychotherapy. A Practitioner’s Guide. Guilford Publications, Inc. 

Lo Coco Gianluca “L’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici: per una ricerca basata sulla pratica clinica” Ricerca Psicoanalitica | piSSN 1827-4625 | anno XXXii, n. 2, 2021 doi:10.4081/rp.2021.261

McWilliams, N. (2017). integrative Research for integrative Practice: a Plea for Respectful Collaboration across Clinician and Researcher Roles. Journal of Psychotherapy Integration, 27, 283-295.

Milrod B. (2009), Psychoanalitic Psychotherapy Outcome for Generalized Anxiety Disorder. American Journal of Psychiatry, 2009, 166(8):841-844.

Shedler J. (2009), The Efficacy of Psychoanalitic Psychotherapy. American Psychologist, 2009, 9:1-10.11

Watzke B (2010), Effectiveness of systematic treatment selection for psychoanalitic and cognitivebehavioural therapy: randomised controlled trial in routine mental healtcare. The British Journal of Psychiatry, 2010, 197: 96-105

 

Di Marco Maria Boccacci
Psicologo clinico e psicoterapeuta psicoanalitico
Docente scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica